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 - VESPRI SICILIANI - S. PLACIDO/CALO' NERO' - IL CONTRASTO -

720° Anniversario dei Vespri Siciliani.

 

"Vespri Siciliani" - Juan Mario Miano

 

Fonte: "STORIA POPOLARE del VESPRO SICILIANO" di Gaspar Amico - Edizioni La Fiaccola Ragusa-Libro.

LIBRO QUARTO

SOMMARIO. I. FURORE ED ARMAMENTI DI CARLO ALLA NOTIZIA DELLA RIVOLUZIONE SICILIANA PREPARATIVI DI DIFESA ORDINATI DAL PARLAMENTO DELLA LEGA SICILIANA RIUNITO IN MESSINA. II. PRIMA FAZIONE DI CARLO A MILAZZO, TUMULTO DI MESSINA, ELEZIONE DI ALAIMO DA LENTINI A CAPITANO DEL POPOLO DI MESSINA E DELLA LEGA. III. COMINCIA L'ASSEDIO DI MESSINA; PRODIGIOSO COMBATTIMENTO DELLA CAPERRINA. IV. SCORAGGIAMENTO DI CARLO, TRATTATIVE DI ACCORDI RIUSCITI A VUOTO IN ODIO AL GIOGO ANGIOINO. V. SPEDIZIONE DI PIETRO D'ARAGONA IN ALGERIA, SUA CHIAMATA, SUA SPEDIZIONE, E SUA ESALTAZIONE AL TRONO DI SICILIA. VI. DICHIARAZIONE DI GUERRA DI PIETRO D'ARAGONA; ASSALTO GENERALE DATO DA CARLO A MESSINA, ED EROICA DIFESA DI QUESTA. VII. RISPOSTA DI CARLO AGLI AMBASCIATORI ARAGONESI; TENTA LA FEDELTA' DI ALAIMO E DI ALTRI MESSINESI; ULTIMA SORTITA DI QUESTI, E SCOMPIGLIO DEL CAMPO ANGIOINO. VIII. RISOLUZIONE DELL'ASSEDIO, TRIONFO E FINE DELLA RIVOLUZIONE DEL VESPRO.      

"Sire Iddio! dappoi t'è piaciuto farmi avversa" la mia fortuna piacciati che il mio calare sia a "petiti passi." Con queste codarde parole dice il Villani avere Carlo D' Angiò, rivolto vilmente al cielo, espresso lo spavento che lo colse alle prime notizie della rivoluzione siciliana pervenutegli a Roma dove allora si trovava. Ma lo abbattimento durò poco nell' animo di quel Tiberio, perocchè accorso precipitosamente a Napoli, e udita, non che la conferma, dettagli della strage de' suoi, misurando a grandi passi le stanze della regia, montò in si bestiale furore, da mordere rabbiosamente un bastone che teneva in mano, giurando in cuor suo di fare tremenda vendetta col ferro e col fuoco, e mutare la Sicilia in un nudo deserto scoglio. E cominciò la persecuzione dai mercatanti siciliani che trovavansi a Napoli, i quali ebbero a nascondersi e a fuggire per sottrarsi al furore di lui. Mentre Carlo mulinava nella mente i più feroci disegni, mettendo all' ordine le forze di terra e di mare preparate per la spedizione in Levante, per scaraventarle sulla misera Sicilia, gli giunse la notizia che anche Messina si era finalmente sollevata, e che nell' isola non rimaneva più un solo Francese.

Allora gli parvero poche le forze proprie a compir la vendetta, e ne chiese ed ottenne dal re di Francia, dal Papa, dalle città guelfe di Toscana e di Lombardia, da Genova, da Venezia. Così egli potè accozzare e rassegnare a Catona (RC), piccola terra collocata in Calabria sullo stretto (di fronte a Messina), un oste formidabile di 15 mila cavalli, 60 mila fanti, e 150 a 200 navi da guerra e da trasporto.

Tanta gente e tante armi in quel tempo non si erano forse mai raccolte neppure per una Crociata; e forse non mai tanta sete di sangue e di vendetta aveva aizzato Cristiani contro Cristiani. Era un re superbissimo, prode in armi, e non uso alle sconfitte, ora sbalzato dal trono da un popolo spregiato;- era un papa armato di furore sacerdotale, che vantando il dominio diretto della Sicilia, e vedendoselo sfuggire di mano, scorgeva tale irriverenza nel linguaggio dei Siciliani, da rispondergli : - Salutavano Cristo : Ave re de' Giudei; e nel tempo stesso lo schiaffeggiavano! - era una fazione guelfa usa a giurare occhio per occhio, dente per dente contro alla rivale fazione ghibellina; - era una schiatta intera oltramontana che marciava alla vendetta della stirpe sterminata perfino entro le viscere materne; - tale era quell'oste che piombava sulla Sicilia, e che scaricatasi tutta addosso alla sola città di Messina, vi si consumò invano circa quattro mesi, ed ebbe a levarsene col danno e colle beffe.

Quei preparativi marziali di Carlo D'Angiò durarono tutto il mese di Aprile. Da Messina poteva udirsi lo squillar delle trombe, e vedersi cogli occhi lampeggiare spade e corazze, perocché l'oste sterminatrice si ammassava a Catona. Non poteva perciò la Sicilia, e tanto meno Messina, starsene spettatrice neghittosa. Onde si adunò in Messina il parlamento della Lega,e con una concordia degna della circostanza, fu deliberato : si fornisse Messina di vettovaglia per due anni, e si rafforzasse di arcieri e di balestrieri; si mandassero uomini e navi con otto capitani e governatori a guardia di Catania, di Agosta, di Siracusa, di Milazzo, di Patti, di Cefalù; tutto insomma si facesse per resistere a quello sforzo di mezza Cristianità che Re Carlo rivolgeva contro la Sicilia, ed impedirgli che vi rimettesse il piede. Non mancò chi consigliasse tornare a battere alla porta del Santo Padre e fare appello alla pastorale sua misericordia. Il Surita anzi afferma aver letto in una storia in versi del Neocastro che giurossi nuovamente obbedienza alla Chiesa Romana e di non accettarsi alcun re straniero (1). Nè mancò, che che ne dica il citato autore, chi consigliasse rivolgersi per aiuti a qualche principe straniero. E come non pensare a questo? Non era in Corte di Aragona Giovanni da Procida con altri potenti baroni del Regno, che trattavano leghe e spedizioni contro Carlo, e che avevano da lungo tempo soffiato, coi baroni non fuorusciti cospirando, sui carboni dell'odio popolare? Il Parlamento messinese aveva già mandato legati a Costantinopoli, a partecipare all'Imperatore Paleologo la notizia della rivoluzione. Così, mentre non si trascuravano pratiche per aiuti esterni, la Lega prendeva provvedimenti di difesa, che ricordano quelli giurati nel Monastero di Pontida contro Federico Barbarossa. Il primo impeto del nemico era da aspettarsi a Messina; e i Messinesi si preparavano alla difesa per mare e per terra. Per terra spianavano a settentrione la campagna, spiantando vigneti abbattendo casolari, e i legnami e materiali di quelli impiegando a risarcire le mura; costruivano macchine, preparavano armi. Per mare chiudevano l'entrata del porto con salde catene e travi galleggianti; piazzavano un saldo presidio sul braccio di S. Remigio ove sorge adesso la fortezza del Salvatore; tenevano in pronto navi da guerra e fuoco greco da lanciare su quelle del nemico.             

 

II

 

Il giorno due di Giugno mostrò che i Messinesi non contavano i nemici. Quaranta galere angioine prendevano la rotta per Messina; Messina ne mandò incontro trenta. Quelle vedendo, contro ogni aspettativa, che la vittima designata, lungi di piegare con rassegnazione il collo, mostrava i denti, voltan le prore a Scilla; e fu loro fortuna che per traversia di mare le navi messinesi non potessero dar loro la caccia, e dovessero rientrare in porto.Carlo vedendo l'osso di Messina un pò duro a rodere, e non poter facilmente prendere la città di assalto, muta la sua tattica, e comincia a disegnare di intercettarle le vettovaglie. Volge le armi contro Milazzo, col disegno di occupare la piazza, dare il guasto alla campagna, e predare gli armenti che dovevano alimentar Messina. Fanno vela adunque per Milazzo una sessantina di navi con un migliaio di fanti e mezzo di cavalli. Colto alla sprovvista il Capitano del popolo di Messina Baldovino Mussone, esce alla campagna; e vedendo la flotta angioina distendersi lungo la riva settentrionale per tentare lo sbarco, distende in linea parallela alla costa le sue forze, e allungandosi, le assottiglia. Era il 24 Giugno; il caldo, la stanchezza, la mancanza di disciplina faceano quasi sbandare quelle milizie improvvisate in cerca di ombra e di acqua. La volpe angioina, colto quell'istante, mette a terra le sue fresche soldatesche. Chi può accorrere accorre ad opporsi, andando incontro a certa morte. E quello non fu un combattimento, fu un macello dei nostri; e ne perirono circa un migliaio, oltre a molti che caddero prigioni. Gli scampati alla strage corsero a Messina a sollevare il popolo, e invece di picchiarsi il petto, e dire mea culpa, gridarono-tradimento!-Trassero dal carcere al supplizio la famiglia de Riso, ne trascinarono per le strade i cadaveri, e si abbandonarono ad insani tripudi, come se avessero vinto la battaglia. Istigatore di siffatta gazzarra era lo stesso Capitano del popolo Baldovino Mussone, che aveva si malamente guidato la fazione di Milazzo. Ad un tratto però prevalse il senno de' savi. Il Mussone fu costretto a deporre l'ufficio, e in suo luogo fu eletto Alaimo da Lentini, uno dei più potenti baroni di Sicilia, vecchio d'età e di senno, ed espertissimo uomo di guerra. Questo Alaimo da Lentini era stato Secreto in Sicilia, e fino al 1274 giustiziere per gli Angioini a Benevento. Ma sdegnato delle prepotenze di Carlo cospirò contro i baroni in favore del Re di Aragona; ed ora eccolo in mezzo ad un tumulto popolare, Capitano del popolo della Repubblica di Messina e suo strenuo difensore, con tanto credito ed autorità, che "Catania e i Comuni tutti del vasto tratto di paese da Tusa ad Agosta, il crearon anco (ignorasi se prima di Messina o appresso) lor Capitano di popolo (3)". Abbiamo visto altrove, nel racconto della sollevazione dei diversi Comuni dell'Isola, e della costituzione dei reggimenti repubblicani, spuntare ad uno ad uno, e mettersi alla testa delle parziali ribellioni i baroni minori, i cavalieri della congiura di Procida. Non avviene così in tutte le rivoluzioni? I pezzi grossi cavano la bruciata dal fuoco colla zampa del popolo; poi trovatala cotta, se la mangiano. Sempre scaleo degli ottimati e dei pubblicani fu il popolo. Occorrendo una carneficina, lo aizzano, gliela lasciano commettere; poi vengon fuori quelli, a dire :-Basta; lasciate fare a noi che siamo savi- Il popolo cede il posto, passa per plebe, per belva; gli ottimati intanto, e i pubblicani, salgono, e son grandi. Vedremo questo Alaimo difendere Messina come un leone; ma essendo venuto in sospetto a casa D'Aragona, e spento con fama di traditore, perché la moglie Macalda non potè ottenere gli amplessi del Re, e marito e moglie non si credettero abbastanza colmi di onori e di ricompense, non diremo mica che Alaimo spendesse il suo valore tutto per amore della libertà di Messina o di Sicilia. E in ogni modo si dovrebbe dire di lui, se fu involto fra le anime di fango il Procida?

                                                    

III

 

Le gesta, che ora narreremo, dell'assedio e della difesa di Messina, ci fanno ricordare gli eroismi di Maratona e di Sagunto. Per cose assai minori e men belle e per tante miserie storiche, piemontesi, lombarde, toscane, romane, continentali insomma, la storia nazionale consacra pagine d'oro, e a renderle più abbaglianti concorrono la leggenda e il poema. Questo prodigioso episodio dell'assedio di Messina invece non ha potuto ancora avere l'onore di essere registrato  nelle storie che passano per le mani del popolo; è rimasto confinato, con tutta la serie dei grandi avvenimenti della storia siciliana, nei polverosi volumi confinati nell'Isola. E poi dicono che s'è fatta l'unità d'Italia! Facciamola, per Dio, nei libri almeno, e accomuniamo il prezioso tesoro delle patrie tradizioni; e non si dica esclusivismo regionale questo pietoso ufficio di celebrare le glorie dei padri nostri. Dopo la descritta fazione di Milazzo, Carlo impiegò un altro mese a far gagliardi preparativi di guerra; aveva giurato lo sterminio dei Siciliani; e ad eseguirlo apprestava tutte le forze. Di quel mese d'indugio frattanto approfittavano i Messinesi, preparandosi anch'essi alla difesa. Alaimo, prese le insegne di Capitano del popolo, ordinò le difese da uomo consumato nell'arte della guerra, rendendo la città difendibile dagli assalti, e i cittadini esercitando a stare da forti e disciplinati nelle ordinanze. Il giorno 25 di Luglio Carlo salpava da Catona con quante navi e milizie eragli riuscito ammassare; egli stesso imbarcavasi sopra una nave superbamente parata di porpora, e parea muovesse a conquistare il mondo. Credea di rinnovare il giuoco di Milazzo, attirando i nostri lungi dalla città, e sbarcando a quattro miglia alla badia di Roccamadore. Il popolo messinese fremea dall'ardore di rispondere alla sfida. Ma Alaimo lo trattenne; ne giovò a Carlo dare il guasto alle campagne, ai vigneti, ai giardini, alle ville, sperando che l'amore delle sostanze avrebbe adescato alla difesa i cittadini, Alaimo a quei vandalismi rispose facendo bruciare settanta navi da Carlo fatte allestire per la spedizione in Oriente, e gli avanzi di esse impiegando a costruire nuove armi, a rafforzar le mura, ad innalzar trincee. Essendo stato lasciato fuori dalle opere di difesa il borgo di Santa Croce, l'attuale Zaera, Carlo l'occupò e vi pose il suo quartier generale; e di là distese le sue milizie, cingendo Messina di strettissimo assedio. Un esile torrente divideva gli assediati dagli assedianti. Da una torricella di legna fatta costruire apposta sui comignoli del monastero dei padri Predicatori collocato sopra un'altura, Carlo poteva speculare dentro la città, e con macchine da tirare sassi disturbare le opere di difesa. I Messinesi se ne accorgono, e puntati i margani contro di essa, la fanno rovinare sotto una tempesta di sassi. Fino al di 6 Agosto nissun'altra fazione. In questo giorno Carlo spinge un poderoso stuolo de' suoi a prender d'assalto il monastero del Salvatore alla bocca del porto. Cento petti di liberi cittadini lo difendevano; essi respinsero con sommo valore quella prima aggressione; e un rinforzo mandato da Alaimo, rinfrescando la pugna, costrinse i Francesi a lasciare sul campo non pochi morti e feriti, e a ritirarsi scornati. Il combattimento della Caperrina, avvenuto due giorni dopo, parve miracoloso agli stessi cittadini meravigliati di averne trionfato. Qui appaion le donne messinesi, e specialmente due popolane Dina e Chiarenza, alle quali fu principalmente dovuta la salute della patria. Il monte della Caperrina stando come cavaliere della città dalla parte di libeccio, era stato da Alaimo convenientemente munito e  barricato, e vi era stanziato a guardia conveniente numero di arcieri. La notte, per un rovescio di grandine, costoro non invecchiati alle intemperie, sbandaronsi; e il nemico vigilante correva a guadagnare quell'erta. Quello sarebbe stato l'ultimo giorno di Messina, se accorrendo in tempo Alaimo con grande seguito di valorosi, non fosse arrivato in punto alla riscossa. Il nemico fu respinto; e sopraggiunta la notte, era sempre imminente e gravissimo il pericolo della città; onde il Capitano del popolo, affidato alle donne l'ufficio delle ronde, degli uomini divisi in drappelli altri destinò nei posti più minacciati a far la scolta, altri trasse a riattare le barricate e le trincee al lume delle fiaccole. "Quella, dice l'Amari, fu per Messina la notte del Campidoglio". A notte scura i Francesi chetamente si avanzano, e tentano ripigliare per sorpresa la Caperrina; passano chetamente il fosso, guadagnano i ripari; ma s'imbattono in una di quelle pattuglie donnesche. La Dina grida l'allarme, e spinge in giù un masso, che fa rotolare parecchi soldati che davan la scalata; Chiarenza vola al campanile e suona a distesa  le campane; la città si sveglia- "Alla Caperrina, alla Caperrina il nemico!"- questo grido suona dappertutto; e da per tutto alla Caperrina corre il popolo armato. Fitto è il buio della notte; ma i difensori della patria si riconoscono alla voce,si aggruppano, si mettono in ordinanza; Alaimo è sul posto e li guida; non si contano i nemici, non si misura il pericolo; ciechi i colpi, cieche le offese; forse i fratelli si feriscono tra loro; ai combattenti si mescolano le donne, e combattono anch'esse, se non vibrando colpi, armi apprestando, e i combattenti alla vittoria colle grida da spronando. E il nemico attonito a tanta furia inaspettata, non solamente è sbalzato dai ripari della Caperrina, ma incalzato senza posa è respinto fin sotto alla tenda del Re. Parve questo, come dicemmo, un miracolo; e i nemici, e gli stessi Saraceni militanti con Carlo, giuravano pel Dio vero, aver vista sorvolare le mura della città una fantasima bianca di vergine, sviare i loro colpi, drizzare quelli dei difensori della patria, far piovere saette di cui non vedeasi il feritore, mandar nel campo una pestilenza che lo disertava. La qual visione rompendo il vigor dei nemici, aggiunse a quello dei nostri la fidanza nel sussidio celeste, e li rese invincibili nelle più aspre e dure prove che seguirono.

 

IV

 

Ferocissima rabbia cuoceva nel petto del vincitor di Manfredi e di Corradino, che mentre disegnava ingollarsi in un boccone l'Impero d'Oriente, dopo la ribellione della Sicilia e il massacro de' suoi, vedeva spuntate le sue armi non mai vinte contro una plebe, come dicevano i suoi duci, assiepata con legni e macerie, e non munita di mura e bastioni. Chiamati a parlamento i capi dell'esercito, furon discordi i consigli. Altri ostentando un orgoglio intempestivo, dicea indecoroso onorare quel nido di ribelli con altre fazioni di guerra, potendoli prendere per fame, stringendo più da vicino l'assedio; altri al contrario non credevano conferire all'onore dei gigli di Francia consumarsi più a lungo in un assedio indecoroso, e meglio convenire d'un colpo solo piombare con tutte le forze, e con un assalto generale far di Messina un mucchio di rovine. Prevalse il partito meno arrischiato. Carlo cominciava a tremare. E dentro alle mura di Messina le opere di difesa ferveano, non altrimenti che dentro all'alveare ogni ordine di pecchie all'opera dei favi, e della prole, e del miele instancabilmente si affatica. Basti per brevità, ricordare come donne di ogni condizione e di ogni età non disdegnassero portare sulle spalle delicate pietre e calcina, e aggirarsi fra le trincee dispensando pane e polenta, e mescendo vino, e parole di conforto. Questo pietoso patriottismo delle donne messinesi fu celebrato i tutta Italia con popolari canzoni, di cui il Villani riferisce come un saggio i seguenti versi :

                                    

                                      Deh com'egli è gran pietate

                                      Delle donne di Messina,

                                      Veggendole scapigliate

                                      Portando pietre e calcina!

                                      Iddio gli dia briga e travaglia

                                      A chi Messina vuol guastare ec.

 

Dall'eroismo delle donne ben puossi argomentare quanto ardore i cittadini dell'altro si dividessero le opere della difesa, e le fazioni, e le più pesanti fatiche, e le cure più assidue. E mentre la città così provvedeva a se stessa, Carlo non aveva potuto tanto stringere l'assedio, che gli altri Siciliani non potessero soccorrere di genti, di armi, e di vettovaglie gli assediati. Quanto alle vettovaglie gli storici assicurano non esservi mai stata penuria. Ma essi ci fanno anche sapere che poi, temendosi la fame, si giunse a mandar fuori la minutaglia di donne, di vecchi e di bambini inetti alle armi, che tapinando miseramente per la campagna caddero inutile preda in mano ai nemici. Vi ha esempio che a si duro partito fu solito ricorrersi altrove negli assedi: ma non vi si ricorse mai, se non quando la disperazione premeva; ond'è più credibile dubitare che i Messinesi non ostentassero abbondanza, a similitudine dei Romani assediati in Campidoglio, che dalla rocca gettavano pane ai Galli, mentre forse, più che il caso non chiedesse, incombeva loro la neccessità di farne buon governo. La perseveranza dei cittadini nella difesa superava adunque la durezza di Carlo. Egli cominciò a piegarsi, a fingere clemenza, a scendere agli accordi; e mandò il Cardinal Cherardo da Parma a trattarli. Costui fu ricevuto in Messina coi più grandi onori come legato pontificio; accompagnato con pompa solenne alla cattedrale, gli furono rassegnate le chiavi della città; gli fu posto in mano il bastone del comando; e fu pregato prendesse lo stato in nome della Santa Chiesa; a lei la città pagherebbe il tributo; vi mettesse un suo reggitore, purché non si parlasse di Carlo e dei Francesi. Il Cardinale rispondeva melate parole; prometteva misericordia; non potersi parlar di patti fra sudditi e monarca; s'affidassero nel grembo della Chiesa: "In suo nome, diceva, rassegno io la città nelle mani di Carlo." Vi sono scrittori, fra i quali l'autorevole De Gregorio, che dicono avere i Messinesi accondisceso alle proposte del Cardinale, offrendo al Re "per anno quello che i loro antichi avean dato al Re Gugliemo" e che Carlo adirato non se ne contentasse, e rispondesse "che volean torgli la signoria, dandogli censo all'uso del Re Guglielmo, che quasi non avea niente(4)." Altri scrittori però non meno autorevoli, e contemporanei  del fatto (5), attestano invece, che a sentirsi proporre l'obbedienza a Carlo, Alaimo proruppe con voce terribile: "A Carlo no!" e strappò di mano al Cardinale quel baston del comando ch'egli poco innanzi gli aveva consegnato. "No, soggiunse, no, padre, veneggi: I Francesi mai più, finché sangue e spade noi avremo." E a quelle parole rispondeva unanime la moltitudine: Francesi mai più!" E continuandosi poi con più calma le trattative, usciva dalla folla un cittadino, che squattrinava queste parole al Cardinale:- "Vedi candor di pastori, che consiglianti ignudo porgere il collo al manigoldo, perché abbia clemenza! Quante ore dura la clemenza di Carlo? Lungi da noi, cuor di selce, torti ingegni, insidiose lingue: voi ne vendeste al Francese; ci riscattammo con l'arme noi: ed or che vi offriamo temperata signoria della bella Sicilia, la schifa Martino, e si fa mezzano al Francese, non vicario del Cristo, di mansuetudine e amore. Oh temete, temete la giustizia del Cristo! E tu riedi al tiranno Angioino, per dirgli che né lioni né volpi mai più entreranno in Messina (6)."- Il Cardinale allibito a quei volti, a quelle aspre parole, usciva dalla città scomunicandola, e ingiungendo ai preti che in tre giorni uscissero dalla città, ai rettori che in 40 giorni comparissero innanzi al Papa. Preti e rettori si risero della scomunica e della intimazione; gli uni e gli altri si mostrarono degni della patria. Al suo ritorno al campo, i Francesi mossero tumultuosamente, e senza aspettar comando, contro alle mura; e fu perciò tanto più facile respingerli. Altre più regolari fazioni furono ripetute alla Caperrina ed altrove, sempre col danno e colle beffe dei Francesi. Messina non ebbe mai tutto l'assedio a patire un rovescio di fortuna nelle armi. E con ciò provava al mondo, che se Carlo e i Francesi ebbero nome di prodi, e vinsero a Benevento Manfredi, e a Tagliacozzo Corradino, ciò non fu soltanto per loro valore, e nemmeno per codardia degli Italiani; ma il non combatter di costoro, e l'esser divisi, diede l'Italia in mano a Carlo, e rese costui potentissimo nella estimazione di tutti.

 

V

 

Mentre queste prodezze avvenivano attorno a Messina, altrove si maturavano le sorti della Sicilia. La notizia della rivoluzione del Vespro era volata a Corte d'Aragona, dove non era si tosto attesa. Re Pietro non avrebbe avuto bisogno altri eccitamenti; tuttavia stavagli ai fianchi la Regina Costanza, e Giovanni da Procida, e Ruggier di Loria, ai quali pareva mille anni di salpare, e trovarsi fra i consorti in Sicilia, e prender essi le redini dello stato. Ai potenti baroni non poteva andar molto a sangue che il popolo, senza di loro, sovrano si governasse liberamente. Quelle costituzioni repubblicane e democratiche già andavano pervertendosi sul nascere col prendervi credito e possanza, prima i cavalieri e i baroni minori, poi i grandi, e quell'Alaimo, Capitano della Lega siciliana, e strenuo difensor di Messina. Il diligentissimo De Gregorio anzi afferma che in questo, che egli chiama interregno, "avvegnachè si fosse annunziato solennemente che l'isola si governava a Comune, pure questo governo era in mano dei soli baroni e dei militi (7)." Onde aggiungendosi all'ardore di Pietro le sollecitazioni della Regina, e del Procida, e del Loria, gli armamenti, che si andavano preparando riposatamente, si accelerarono, e l'opra d'un mese fornivasi in otto giorni sotto gli occhi del Re. Egli, come si disse, mascherava l'impresa di Sicilia sotto quella di Costantina, perché l'Africa doveva servirgli di scala a piombare in Sicilia. Ad un messaggio francese giuntogli in quel punto ad augurargli vittoria se andasse a oste contro a Musulmani, e a minacciargli lo sdegno del Re di Francia se contro a Carlo, Pietro, accomiatando gli ambasciatori, rispondeva con parole sibilline: "Mio proposito è tuttavia quello ch'è stato, e farò come sempre ho fatto, con intendimento di servire Dio." Né alla guerra soltanto egli si preparava, ma agli eventi tutti della guerra; impalmava con grande sollecitudine ad Eleonora figlia dell'Inglese Edoardo I, il proprio figlio Alfonso; faceva testamento, istituendo il detto suo figlio Alfonso erede dei reami di Valenza e di Aragona e del contado di Barcellona; e forse davvero abdicava al trono in favore dello stesso, quantunque si dubiti questo atto essere stato una funzione posteriore diretta ad eludere la Corte di Roma, che non strappasse la corona al figlio, cui era ceduta, innocente dei disegni e degli atti del padre. Ad Alfonso in ogni modo e alla Regina Costanza affidava la reggenza. Il 3 Giugno salpava con un esercito da 10 a 12 mila uomini; soprastette diversi giorni a porto Maone nelle Isole Baleari; addì 28 approdò presso Costantina al porto di Collo. Ivi trovò grandi novità. Le trame di Ibn Wazir erano state sventate; Il Re di Tunisi eragli piombato addosso coll'esercito; e quando stava per cadere in mano del suo nemico, gli si voltarono contro i suoi e lo uccisero. Costantina cadde perciò in potere del tunisino Abu Fares, che già vi si fortificava, quando approdò a Collo Pietro d'Aragona. Ivi Pietro pugnò con varia fortuna, procurando di spirar fidanza ai suoi Catalani in attesa degli eventi di Sicilia, piuttosto che far notevoli progressi in Algeria. E gli eventi di Sicilia già maturavano. I baroni avevano preso il sopravvento nei parlamenti dei Comuni. La patria era in pericolo; i Messinesi lottavano come leoni; ma chi poteva affidare i Siciliani che l'eroica città avrebbe potuto lungamente sostenersi contro  tanta oste? L' ardore della rivoluzione cominciava a sbollire. Il popolo è attissimo a disfare gli imperi, non così a rifarli. I baroni avevano accorgimenti, aderenze, oro, ambizione; e presero le redini del governo nei Comuni e nella Lega. Interesse di casta li trascinava alla monarchia, perché repubblica vera di ottimati, né è possibile, né esistette mai; e mista di ottimati e di popolo condusse sempre alla guerra civile, e quindi alla tirannide. Onde i baroni fecero prevalere il partito di chiamare Pietro d'Aragona, e offrirgli formalmente la corona di Sicilia. Due oratori di Re Pietro navigando con passaporto per Montefiascone, per chiedere favori al Papa contro agli infedeli, furono, per fortuna di mare, sviati dal diritto cammino; e dove li scaraventarono i venti traditori? per l'appunto in Palermo; per l'appunto mentre il parlamento, adunato in Santa Maria dell'Ammiraglio (l'attuale Martorana), costernato dalle strettezze di Messina, non sapeva che partito pigliare. Fra le altre combinazioni, arrivavano a Palermo, per l'appunto allora, oratori Messinesi a trattare della chiamata dell'Aragonese già deliberata in Messina dai nobili e savi adunati a Consiglio, per divina ispirazione. Sono introdotti nel parlamento gli oratori Catalani per offrire un'ancora di salvezza: "Chiamassero Pietro d'Aragona, legittimo pretendente al trono di Sicilia". Messa quell'ancora a partito, fu vinta ad unanimità, a patto che Pietro osservasse le leggi, le franchigie e i costumi dei tempi di Guglielmo il Buono, e soccorresse prontamente la Sicilia pericolante. A farla apposta, chi avrebbe potuto sognare si felice coincidenza di persone e di eventi? "Niuno non vede, dice il sospettoso Amari, che fortuito caso non fu questo, meditato colpo di scena, sviluppo delle pratiche de' nostri ottimati con Re Pietro. Se tramaron essi fin dai tempi di Niccolò III, se v'ha parte di vero nei maneggi del Procida in Sicilia, trionfava in questo parlamento, non già nel Vespro, l'antica congiura (8)." I due oratori Aragonesi poi riprendevano la via di Montefiascone, e contemporaneamente due altri ne partivano per Costantina: Niccolò Coppola da Palermo, e Pain Porcela catalano (anche un catalano!) per portare a Pietro d'Aragona lettere, che, per pieno mandato di tutte le città di Sicilia, gli comunicavano la deliberazione del parlamento di Santa Maria dell'Ammiraglio. Pietro fingeva di nicchiare; chiedeva tempo a risolversi; chiamava a consiglio i principali dell'esercito; ma finalmente, contro il parere di una parte di costoro, tornati colle mani vuote gli oratori spediti al Papa, agli oratori di Palermo rispose la gran parola: "Accetto." E giustificato al Re d'Inghilterra, e ad altri potentati, che lasciava la guerra santa per le ripulse del Papa, e che chiamato dalla Sicilia, andava a rivendicare i diritti di Costanza e dei figli, imbarcava su 22 galee ed altri legni minori l'esercito, e nel penultimo giorno d'agosto gettava le ancore nel porto di Trapani. Per carità di patria non ricorderemo i pazzi tripudi onde fu accolto il nuovo giogo straniero: basterà dire che dei baroni fu più lieto chi potè tenere le redini del destriero del Re; e che il popolo gridava con quanta n'avea in canna: "Benvenuto il Re mandato dal cielo a liberarci dall'atroce nemico!" Era in Trapani ad accogliere il nuovo signore Palmiero Abate, figlio di quell'Arrigo Abate, che avea in nome di Manfredi spento colle armi le repubbliche siciliane del 1254; e presentò al Re ricchissimi donativi, e aprì i suoi granai alle affamate soldatesche catalane. Quando poi Pietro fece il suo ingresso trionfale in Palermo, la gazzara s'udì fino a Monreale. Dopo tre giorni, adunatosi un parlamento di baroni e di cavalieri di tutte le terre siciliane, poiché non è più esatto parlar di popolo e di Comuni, Pietro domandava se gli era stata offerta davvero la corona di Sicilia. Un cavaliere rispondeva di si, e tutto il parlamento faceva eco. " Degnisi ora il Re, ripigliava quel cavaliero, accordar le franchigie del Buono Guglielmo." Pietro le accordava e prometteva i diplomi. E la solennità terminava con un reale banchetto. D'incoronazione non si parlò, che sarebbe stato sacrilegio il farlo a dispetto del Santo Padre, il quale ancora non sapeva Pietro essere ben altrove che sul trono di Sicilia.

 

VI

 

Di tutto quest'armeggio avea già ricevuto sollecite notizie Carlo d'Angiò; e non è a dire se ne prendesse rovello, mentre facevano prova si infelice il suo furore e le sue armi formidabili contro la spregiata Messina. Ora l'Aragonese marciava baldanzoso contro di lui. A Palermo quei pochi Catalani, venuti laceri e bruciati dalla campagna africana, parvero una meschinità contro il fiorito esercito di Carlo. Onde i Palermitani decisero confidare unicamente nelle forze proprie, e dell'Aragonese soltanto usufruire il consiglio e il nome regio. Urgendo i casi di Messina, chiesero dunque a Piero che li conducesse alla pugna. E a Pietro non parve vero di trovar acceso tanto fuoco in quei petti. Chiamati quanti Siciliani erano atti alle armi, diè loro un convegno a Randazzo, e a quella volta ei si diresse colle sue milizie, mentre spingeva verso il Faro la flotta. Così Pietro d'Aragona nuovo Re di Sicilia usciva in campagna contro Carlo d'Angiò, col disegno di chiuderlo per terra in una fossa attorno a Messina, tra i monti e il Faro, e per mare tagliargli colla flotta la ritirata in Calabria. Per dichiarare a Carlo la guerra spedivagli con buona scorta di armati tre oratori; che accostatisi al campo, chiesero salvacondotto per mezzo di due Carmelitani. Carlo, immaginando di che trattavasi, rispose che lo avrebbe dato fra due giorni. Era poi il giorno 13 Settembre; e bramava fra due giorni rispondere da vincitore al rivale. Onde ordinò per la dimani un assalto generale con tutte le forze, e di terra e di mare, a Messina. Allo spuntar del giorno vegnente suonava terrbile uno strepito d'armi e di trombe intorno a tutta la cerchia dell'assediata città. Carlo stesso percorreva a cavallo le file de' suoi soldati, eccitandoli con parole rabbiose allo sterminio della vile bordaglia che si nascondea entro gli ignobili steccati di Messina. Simultaneamente l'intera armata navale col vento in poppa faceva impeto all'entrata del porto. Ma questa era ben serrata con catene difese da forti reti sott'acqua, tendenti a smorzare l'urto delle navi nemiche. All'urto in fatti la principale nave angioina rimaneva incagliata fra quelle reti. Dalle nostre galee e dai ridotti della riva tempestaronla i difensori, con sassi, con saette, e con fuochi; talché, voltato il vento, la flotta angioina ebbe a ritirarsi così mal concia nelle vele, negli alberi e nel sartiame, che a stento potè mettersi in salvo. Quelle forze inutilizzate sul mare furono perciò rivolte a rinforzare gli assalti dalla parte di terra. Ivi non erano uomini, ma leoni, i Messinesi. Macchine di guerra d'ogni sorta battevano invano in mille guise le mura e gli steccati; si rizzavano scale, si tentavano scalate; ma sempre invano; chè dagli spaldi pioveva impetuoso un nembo di sassi di freccie, di olio bollente, di fuoco greco; e talvolta un de' nemici giunto ad agguantare il sommo degli spaldi, veniva respinto come arme d'offesa a rovesciare altri che lo seguivano nella scalata. Alaimo era presente in ogni luogo, colla persona, colla voce, cogli ordini, coi rinforzi sempre pronti, e sempre giunti in tempo dove più premeva il pericolo. Singolari sopratutto quelle care, quelle sublimi donne messinesi, che alzando sulle braccia i pargoletti spaventati:-" Guardateli, gridavano ai mariti e ai fratelli combattenti, ce li sgozzeranno quei lupi! e le vostre picciotte vi saranno stuprate innanzi agli occhi!"- E via andare, e venire, correndo coi grembiuli colmi di sassi, o recando anfore di vino, o fasci di saette, e quante armi il furore somministra. Il giorno declinava, ma non declinava dall'una parte e dell'altra la ferocia dei combattenti. Ad onore del nome italiano vuolsi ricordare ciò che attestano gli scrittori contemporanei, che né gli Italiani militanti sotto le bandiere di Carlo bersagliarono i Messinesi sugli spaldi, né i Messinesi dagli spaldi bersagliarono gli Italiani riconoscendoli alle insegne. Stava Carlo gonfio d'ira a speculare dalla porta della chiesa di Santa Maria l'andamento della battaglia; quando un gran masso assestato col mangano da un dottore Bonaccorso, stava già per accopparlo; due cavalieri si slanciarono, prendendo nel petto il proiettile, salvarono colla loro morte la vita del Re. Quello fu la salute di Messina in quel giorno; perocché ritiratosi precipitosamente Carlo da quel luogo fatale, e vedendo tornare sbrancati e sanguinosi dalla pugna i suoi, fece dare nelle trombe e suonare la raccolta. Un urlo di gioia feroce rispose dalle mura a quello squillo; e mentre i combattenti, saltate le mura e i ripari, incalzavano colle spade alle spalle i Francesi, che rotti e in disordine si ritiravano, uccidendoli, e spogliandone i cadaveri tra i rottami delle macchine e dei sassi, e fin sotto alla stessa tenda del Re, dentro la città, nel tripudio della vittoria, e nella gioia della patria salvata, i cittadini si abbracciavano, si baciavano, e i vecchi si gettavano a terra, baciando il benedetto suolo della patria, e la Vergine Santa, con lagrime non mai più calde, benedicendo, d'avere umiliato il tigre Angioino, e salvato la città dalla sua furibonda libidine. La notte poi un audacissimo, per nome Leucio, volle fare una sortita con un pugno di soldati; che penetrati nel campo nemico, gavazzarono ancora nel sangue di altri Francesi, i quali spossati dalle ferite, dalla stanchezza e dal sonno, si lasciarono senza resistenza massacrare. E rientrarono in città carichi di bottino.

 

VII

 

Due giorni dopo la battaglia, standosi Carlo sdraiato a letto, malescio di rabbia più che d'altro, ammise al suo cospetto gli ambasciatori Aragonesi e buttate là le lettere credenziali senza leggerle: " Dite su, diceva garbatamente, alla buon'ora." Gli ambasciatori gli esponevano: mandarlo invitare Pietro d'Aragona, Re di Sicilia, a lasciare l'Isola a torto occupata, atrocemente manomessa, in cui aiuto si era mosso Pietro come Signor naturale pel diritto de' suoi figliuoli. Mal frenando l'interno dell'animo suo, rispondeva Carlo: non esser la Sicilia né sua né d'altri ma della Santa Chiesa; e che difendendola, saprebbe far pentire il temerario usurpatore. E accomiatolli incaricandoli di profferire ai Messinesi una tregua di otto giorni. I Messinesi che di tregua non avean bisogno, non vollero neppure ricevere gli ambasciatori che non avevano credenziali per loro. Ricevevano invece due fuorusciti: Niccolò de' Palizzi, e Andrea di Procida; i quali non credenziali o tregua recavano, ma una banda di 500 balestrieri delle Isole Baleari mandata in loro soccorso dal novello Re di Sicilia penetrarono costoro in città dalla Capperina, spiegarono sulle mura lo stendardo Aragonese. Soprastette ancora una decina di giorni l'esercito Angioino senza tentare altra fazione, tranne quella di dare l'ultima mano al guasto della campagna circostante. Invece attendeva Carlo a tentare la fedeltà di alcuni influenti cittadini, e dello stesso Capitano del popolo; anzi cominciò da questi, facendogli grandi promesse, oltre a quella del perdono a lui e ai Messinesi, e spedivagli una pergamena col reale sigillo d'oro, a ciò vi scrivesse qual diploma volesse in favor suo. Alaimo gliela rimandò indietro con risposta degna di un Capitano del popolo non così gli altri; che scoperti rei di aver acconsentito ad aprire le porte al nemico, fecero la fine dei traditori sul patibolo; e furono Arrigo de' Parisi Giudice, Simone del tempio Notaio, Giovanni scaldapidofu, e un Romano; e con la stessa pena fu condannato Federico di Falcone per avere consigliato la resa. Si arrivò a sospettare dello stesso Baldovino Mussone, già Capitano del popolo, per essere uscito di notte furtivamente dalla città alla notizia della venuta di Pietro. Preso in campagna, e condotto a Messina, fu umanamente salvato da Alaimo da Lentini. E mentre da una parte faceva quegli empi tentativi, Carlo consultava co' suoi condottieri se convenisse continuare l'assedio, o partirsi. Erano vari i pareri, e gravissimi dall'una parte e dall'altra, non essendoci una via di mezzo tra il discredito e la vergogna dall'una e il pericolo di nuove e più fatali, non che più probabili sconfitte, dall'altra. Carlo non si decideva a nulla, e piuttosto parea inclinasse alla ritirata, licenziando già alcune delle milizie feudali. I Messinesi intanto, resi baldi dalla vittoria, dalla venuta di Pietro d'Aragona, e dai soccorsi ricevuti, non restavano di dare molestia al campo rispondendo ai colpi di mangano, coi quali pure gli Angioini molestavano alla stanca la città. La mattina del 24 Settembre, avendo Carlo fatto occupare il palazzo arcivescovile, posto in luogo fortissimo fuori le mura, per chiudere la via ad altri soccorsi che potessero giungere a Messina sulle traccie di quelli entrati col Palizzi e col Procida, gli assediati vollero torsì quel bruscolo dagli occhi, quel Leucio di sopra ricordato fece uscire di notte, per diverse vie diversi giovani arrischiati, ordinando loro che da tre lati circondassero il palazzo; dall'altro a buon tiro s'imboscherebbe lui, allo spuntar della luna sui monti di Calabria, dessero l'assalto, levando il luogo più a rumore che potessero. La fazione riuscì com'era stata disegnata. Desti dal rumore quei Francesi del presidio, balzano sonnacchiosi dai letti, e per non perdere tempo, né le vesti indossano, né le armi, ma fuggono per lunga via che credono rimanere aperta allo scampo; cadono invece nei lacci di Leucio, che ne fa miseranda strage. In quel tempo istesso levasi dalla città un rumore selvaggio, con grida, strepiti, e suoni di trombe, e di caldaie, e di rami percossi, e in mezzo a quel pandemonio levasi un urlo terrbile-" Al campo, al campo!"-E al campo la folla impetusosamente usciva dalle porte come torrente che da più gole straripi alla pianura. Era stato annunziato a Carlo da un esploratore messinese, preso o fattosi prendere ad arte nel campo, per nome Morello, fieri propositi mulinarsi in città contro la stessa persona del Re; fra i quali quello di irrompere nel campo, con 500 cavalli spagnuoli e 2000 pedoni, direttamente contro la regia tenda e che il grido di guerra sarebbe stato-(Al campo al campo!)- All'annunzio di quel secondo Muzio Scevola Carlo era rimasto cupo e pensieroso. Destavalo ora veramente dal sonno quel grido-"Al campo, al campo!"-E saltato dal letto, vedendo il campo in disordine, e i soldati fuggire seminudi, rovesciando nella fuga e al buio tutto quanto ingombrava il cammino, fuggì anche lui verso la marina. Poi vergogna lo trattenne; e datosi a raccogliere e ordinare i fuggitivi, tornò agli alloggiamenti, donde la plebe già rientrava in città carica di bottino.

 

VIII

 

Alla dimani i cittadini, affollatisi alle mura, proverbiavano coi lazzi più osceni quegli eroi Francesi, che son prodi coi vili, ma che erano fuggiti in camicia innanzi a una ciurma, non di forti guerrieri, ma di femmine siciliane-" Or che non venite a dirci-Pagate, Paterini?-Venite a frugare nel seno le nostre donne, e a cercarvi pugnali; venite ai forzati amplessi di queste saracene. Oh, non siete più voi quei valentuomini, che dovevate spiantare questo vile scoglio di Sicilia, e andarvi a ingoiare in un boccone l'Impero d'Oriente?"- E Carlo non ebbe più fronte di stare ancora un giorno a quell'assedio. Diede ordine  di spiantar le tende, e partire. Partì lo stesso giorno per la prima la Regina col suo seguito; ne' due giorni appresso furono imbarcate le macchine da guerra, e le tende reali. Quando s'imbarcò il Re, nel resto dell'esercito non fu più possibile tenere ordine alcuno; i soldati fuggivano come se avessero le lancie del nemico alle costole, gettando arnesi, rovesciando botti, spargendo salmerie, e le macchine abbandonando, e fino i cavalli lasciando disciolti o uccidendo. Gli ausiliari guelfi fiorentini arrivarono ad abbandonare il padiglione grande del Comune di Firenze che avevano portato seco; "il quale dice il Villani, rimase alla partita di Messina, e' Messinesi il misono per ricordanza nella loro grande Chiesa." I Messinesi a veder quella disfatta non poterono tenersi di uscire a dare al nemico colle armi l'addio della partenza. Il conte di Borgogna fece qualche sforzo per proteggere con una compagnia di cavalli la ritirata; e nondimeno altri 500 Francesi in quel fuggi fuggi furono miseramente, e senza opporre resistenza, massacrati. Il ricco bottino trovato sul campo non fu lieve compenso ai danni patiti dalla città. Così quel fiorito esercito di circa 80 mila uomini, dove militava il fiore dei cavalieri Francesi e delle città guelfe d'Italia, ben armato, ben disciplinato, provato alle fazioni campali, guidato da un Re valorosissimo, venuto con tanta baldanza e con tanta ira, spuleggiava decimato, svaligiato, spennacchiato, avvilito dall'onta, tremante dalla paura, deriso dalla plebe messinese; né gli valsero i fulmini di Roma ond'era munito, né il dirsi campione dei diritti di Santa Madre Chiesa, in nome della quale voleva sterminare quella razza di  ribelli e paterini di Sicilia. I Francesi così uscivano una volta per sempre dall'Isola. Durò ancora lunghissimi anni la lotta degli Angioini per ricuperarla. Ma quella fu lotta dinastica tra Angioini e Aragonesi. La rivoluzione del Vespro ebbe lo scopo di scuotere il giogo della tirannide straniera. Lo straniero fu cacciato completamente colla risoluzione dell'assedio di Messina, né mai più pose piede stabilmente in Sicilia; onde tutto quel che seguì dopo, comechè conseguenza del Vespro, è un periodo di storia affatto distinto. Il periodo storico del Vespro incominciato gagliardamente a Palermo, terminò gloriosamente a Messina.                                                                                     

 

 

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