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 - VESPRI SICILIANI - S. PLACIDO/CALO' NERO' - IL CONTRASTO -

Biblioteca Vaticana, 20 Gennaio 1888      

IL CONTRASTO

di

Cielo D'alcamo

 

I.

     Rosa  fresca aulentissima, c’apar’ inver la state,

                Le donne ti disiano, pulzelle, maritate.

                Tràmi d’este focosa, se t’este a bolontate.

                Per  te non aio amento notte e dia,

       5       Penzando pur di voi, madonna mia.

 

II.

     Se di meve trabalgliti, follia lo ti fa fare.

                Lo mar potresti arompere, avanti asemenare;

                L’abere d’esto secolo tuto quanto asembrare;

                Avere me nom poteria esto monno;

      10      Avanti li cavelli m’aritonno.

 

III.

     Se li cavelli artoniti, avanti foss’io morto ;

                C’aisi mi perdèra lo solaccio e lo diporto.

                Quando ci passo e veioti, rosa fresca de l’orto.

                Bono comforto donimi tut’ore :

      15      Poniamo che s’aiunga il nostro amore.

 

IV.

     K’ el  nostro amore aiungasi nom boglio m’atalenti ;

                Se ci ti trova pàremo colgli altri miei parenti,

                Guarda non t’argolgano questi forti corenti.

                Como ti seppe bona la venuta,

      20      Consiglio che ti guardi a la partuta.

 

V.

     Se ‘n tuoi parenti trovami, e che mi pozon fare?

                Una difemsa metoci di dumilia agostari.

                Viva lo ‘mperadore! Graz’a Deo,

                Intendi, bella, quello ti dico eo

      25      Non mi tocàra pàdreto per quanto avere ambàri.

 

VI.

     Tu me no’ lasci vivere, né sera, né maitino:

                Donna mi son di perperi ; d’auro mass’amotino.

                Se tanto aver donassemi, quanto a lo Saladino,

                E per aiunta quant’a lo Soldano,

      30      Tocare me nom poteri a la mano.

 

VII.

     Molte sono le femine c’ànno dura la testa,

                E l’omo com parabole l’adimina e amonesta.

                Tanto intorno percazala fin che l’à in sua podesta.

                Femina d’omo nom si può tenere.

      35      Guardati, bella, pur de ripentere.

 

VIII.

     K’eo me ne pentesse? davanti foss’io aucisa.

                Ca nulla bona femina per me fosse ripresa.

                Er sera ci passati, corenno a la distesa.

                Aquistiti riposo, canzoneri ;

      40      Le tue paraole a me nom piaccion gueri.

 

IX.

     Doimè! quan’ son le schiantora che m’à mise a lo core.

                E solo purpenzànno maladia quanno vò fore ;

                Femina d’esto secolo tanto non amai ancore,

                Quant’amo teve, rosa invidiata.

      45      Ben credo che mi fosti distinata.

 

X.

     Se distinata fosseti, caderia de l’alteze,

                Chè male messe forano in teve mie bellezze.

                Se tuto adivenissemi, talgliàrami le treze,

                E comsore m’ arenno a una magione

      50      Avanti che m’artochi ‘n la persone.

 

XI.

     Se tu consore arenneti, donna col viso cleri,

                A lo mostero vènoci e rennomi comfleri.

                Per tanta prova vencierti, faràlo volonteri.

                Con teco stao la sera e lo maitino ;

      55      Bensogne ch’io ti tenga al meo dimino.

 

XII.

     Boimè tapina misera, com’ao reo distinato!

                Gieso Christo l’altissimo del toto m’è airato.

                Conciepistimi a abattere in omo blestiemato.

                Cierca la terra ch’este granne assai ;

      60      Chiù bella donna di me troverai.

 

XIII.

     Ciercat’aio Calabra, Toscana e Lombardia,

                Puglia, Costantinopoli, Gienoa, Pisa, Soria,

                Lamangna e Babilonia, tuta Barberia ;

                Donna non trovai tanto cortese,

      65      Per Dea sovrana di meve te prese.

 

XIV.

     Poi tanto trabagliasti, facioti meo pregheri.

               Che tu vadi adomànimi a mia mare e a mon peri.

                Se dare mi ti dengnano, menami a lo mosteri,

                E sposami davanti da la iente.

      70      E poi farò le tuo comannamente.

 

XV.

     Di ciò che dici, vitama, neiente non ti bale,

                Cà de le tue parabole fatto n’ò ponti e scale.

                Penne penzasti metere, sonti cadute l’ale,

                E dato t’aio la bolta sotana.

      75      Dunque, se poi, teniti villana.

 

XVI.

     En paura non metermi di nullo manganello :

                Istomi ‘n esta groia d’esto forte castello.

                Prezo le tue parabole meno che d’un zitello.

                Se tu no’ levi e vàtine di quaci.

      80      Se tu ci fosse morto, ben mi chiaci.

 

XVII.

     Dunque voresti, vitama, ca per te fosse strutto?

                Se morto essere dèboci, od intagliato tutto,

                Di quaci non mi mòsera se non ài de lo frutto,

                Lo quale stao ne lo tuo jardino

      85      Disiolo la sera e lo matino.

 

XVIII.

     Di quel frutto non àbero conti, né cabalieri,

                Molto lo disiano marchesi e iustizieri :

                Avere nonde pòttero ; gironde molto feri.

                Intendi bene ciò che bole dire :

      90      Men’este di mill’onze lo tuo abere.

 

XIX.

     Molti son li garofani, ma non che salma nd’ai.

                Bella, non dispresgiaremi s’avanti non m’assai.

                Se vento è im proda e girasi e giungieti a le prai,

                A rimembrare t’à este parole :

      95      Ca dentra sta animella assai mi dole.

 

XX.

    Macera se doleseti che cadesse angosciato!

                  La giente ci coresoro da traverso e dallato.

                  Tut’à meve diciessono : Acori esto malnato!

                  Non ti dengnàra porgiere la mano

      100      Per quanto avere à ‘l Papa e lo Soldano.

 

XXI.

     Deo lo volesse, vitama , ca te fos morto in casa!

                  L’arma n’anderia cònsola, ca di e notte pantasa.

                  La iente ti chiamàrano : Oi periura malvascia,

                  C’à morto l’omo in casata, traita!

      105      Sanz’onni colpo, levimi la vita.

 

XXII.

     Se tu no’ levi, e vàtine co la maladizione,

                  Li frati miei ti trovano dentro chissa magione.

                  Be’ lo mi sofero perdici le persone,

                  C’à meve se’ venuto a sormonare.

      110      Parente e amico non t’ave aiotare.

 

XXIII.

     A meve non aitano, amici né parenti.

                  Istrani mi son, càrama, enfra esta bona iente.

                  Or fa un anno, vitama , ch’entrata mi se ‘n mente

                  Di canno ti vististi lo ‘ntaiuto.

      115      Bella, da quello iorno son ferito.

 

XXIV.

     Ai! Tanto ‘namorastiti, juda lo traito,

                  Como se fosse porpore, iscarlato o sciamito!

                   S’a l’evangiele iurimi, che mi sia a marito

                  Avere me nom pòtera esto monno.

      120      Avanti in mare itomi al profondo.

 

XXV.

     Se tu nel mare gititi, donna cortese e fina,

                   Dereto mi ti misera per tuta la marina.

                   Poi c’anegaseti, trobarèti a la rena.

                   Solo per questa cosa adimpretare :

      125      Con teco m’aio a giungiere a pecare.

 

XXVI.

     Sengnomi im Patre, en filio ed ia Santo Mateo!

                  So ca non se’ tu retico, figlio di Giudeo,

                  E cotale parabole non udi dire anch’eo.

                  Mortasi la femina a lo ‘ntutto

      130      Perdeci lo saboro e lo disdotto.

 

XXVII.

     Bene lo saccio, càrama, altro nom pozo fare.

                   Se quisso non arcomplimi, lassone lo cantare.

                   Fallo, mia donna, plàzati, chè bene lo puoi fare.

                  Ancora tu no’ m’ami, molto t’ amo,

      135      Si m’ai preso come ‘l pescie a l’amo.

 

XXVIII.

     Sazo che m’ami ; amoti di core paladino.

                   Levati suso e vàtene, tornaci a lo matino.

                   Se ciò che dico faciemi, di bon cor t’ amo e fino.

                  Quisso t’imprometto eo sanza falglia :

      140      Te’ la mia fede, chè m’ài in tua balglia.

 

XXIX.

     Per zò che dici, càrama, neiente non mi movo.

                   Inanti prenni e scannami, tolli esto cortel novo.

                   Esto fatto far potesi inanti scalfi un uovo.

                  Arcompli mi’ talento, amica bella,

      145      Chè l’arma co lo core mi s’infella.

 

XXX.

     Ben sazo, l’arma doleti com’omo c’ave arsura.

                  Esto fatto nom potesi per null’altra misura.

                  Se non a le Vangiele, che, mo ti dico, jura,

                 Avere me nom puoi in tua podesta.

      150      Inanti prenni e talgliami la testa.

 

XXXI.

     L’ Evangiele, càrama, ch’io le porto in seno,

                  A lo mostero presile ; non ci era lo patrino.

                  Sovr’esto libro iuroti, mai non ti vengno meno.

                  Arcompli mi’ talento in caritate,

      155      Chè l’arma me ne sta in sutilitate.

 

XXXII.

     Meo Sire, poi iurastimi, eo tuta quanta incienno,

                   Sono a la tua presenza, da voi non mi difenno.

                   S’eo minespreso àoti, merzè, a voi m’arenno.

                  A lo letto ne gimo a la bon’ora

      160      Che chissa cosa n’è data in ventura.

 

 

 

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