da "I Siciliani nuovi", aprile 1996   SICILICASSA

Una sera di molti anni fa, in un lussuoso albergo di Taormina, arrivò un signore grassoccio, sorridente, soddisfatto. Arrivò in compagnia di una attrice straniera, probabilmente svedese, prese in affitto la suite più lussuosa dell'albergo, brindò a champagne, se la spassò per tutta la notte, e quando a mezzogiorno scese nella hall per congedarsi, il portiere naturalmente gli presentò il conto. Era un conto salatissimo, con una cifra a sei zeri: le normali tariffe dell'albergo, gli spiegò. Il tipo grassoccio allora disse qualcosa sottovoce al portiere dell'albergo, scandì bene il suo nome, accennò ai suoi ottimi rapporti col proprietario, che era uno dei maggiori istituti di credito siciliani. Il portiere capì, s'inchinò lievemente, strappò la nota spese, la fece scivolare tra le cartacce: le banche, allora, potevano permettersi questo ed altro. Una volta - fu sempre in quegli anni - il direttore del Banco di Sicilia si presentò in tivvù a spiegare che il denaro non ha odore, e che a lui non importava nulla se i suoi clienti se lo guadagnassero lavorando, piuttosto che spacciando eroina o ammazzando i cristiani: bastava che lo mettessero in banca, e che i conti quadrassero. Quando disse quest'ultima cosa - i conti - in verità, gli tremò un po' la voce. I telespettatori pensarono che fosse, a modo suo, un moto d'orgoglio. Era invece un attimo di paura. Ma si sarebbe capito molti anni dopo.
Pochi mesi fa, in un paese della Sicilia, ci fu uno strano funerale. Non era morto nessuno, quel giorno, e proprio per questo il funerale era strano. Tanto più che le salme erano in effetti molto arzille e perfino - cosa insolita per una salma - ferocemente incazzate, al punto che ciascuna si portava in spalla da sola la sua cassa e gridava qualcosa per la strada. Il funerale, in realtà, era solo teatro, metafora. Ma dietro il teatro c'era il dramma di parecchie decine di artigiani e commercianti, infuriati con la loro banca che un bel giorno aveva chiuso tutti i crediti. Costringendoli a restituire i soldi, chiuder bottega, o cercarsi al più presto un usuraio. Il direttore della banca quel giorno non uscì dal suo ufficio. Si limitò a parlare a lungo al telefono con la centrale, da qualche parte d'Italia...

***

Bene: tutto quel che c'è in mezzo, tra la notte brava di Taormina e questo strano funerale di paese, è precisamente la storia delle banche siciliane. Una storia che sarebbe perfino buffa, se di banche e d'usura, da queste parti, non si potesse anche crepare. Una storia che volendo potremmo riassumere in poche cifre, secche ma utili da tenere a mente. Il costo del denaro, che in Sicilia è arrivato al quattordici e mezzo per cento, molto più in alto della media nazionale. La terribile difficoltà di ottenere credito in questa regione: qui le banche investono solo il 64 per cento di quel che raccolgono; in tutt'Italia, mediamente, il 78. La paradossale propensione dei siciliani a depositare sempre più soldi in banca: negli ultimi due anni si è registrata una crescita dei depositi stimata intorno al nove per cento. La incredibile capacità delle nostre banche di andarsi a trovare, quando i soldi li prestano, i clienti più imbroglioni e inaffidabili (le "sofferenze", e cioè i crediti che probabilmente non si riscuoteranno mai più, sono il triplo della media nazionale). Ma le cifre, da sole, non basterebbero. Intanto perché di banche, in Sicilia, parlano da un paio d'anni gli atti giudiziari. E poi perché sulle banche, adesso, si sta giocando una partita politica decisiva: a Palermo, a Palazzo d'Orleans, dove vive i suoi ultimi giorni l'ultimo governo del parlamento degli inquisiti.
Cominciamo dalle inchieste. Che spiegano come sia stato possibile, a forza di foraggiare i mafiosi e i loro amici, che un giorno gli istituti di credito siciliani si trovassero senza una lira da prestare alle persone perbene. E prendiamo la Sicilcassa, la seconda banca regionale. Gli ultimi dati parlano di sofferenze per 4457 miliardi. Di questi, 1837 se li sono spartiti i quattro cavalieri catanesi ed il conte Arturo Cassina da Palermo. Gaetano Graci, da solo, s'è portato all'altro mondo debiti per 680 miliardi: poco meno del patrimonio della Cassa, che è di appena 900 miliardi. Ora non c'è dubbio che, a chiunque altro si fosse trovato esposto per molto meno e non avesse voluto o potuto pagare - come non ha pagato Graci - qualsiasi banca avrebbe prima o poi pignorato la casa. Anche al cavalier Graci, per la verità, la Sicilcassa ha preso qualche palazzo. Gliel'ha preso con molta educazione, però: pagandolo. E pagandolo, qualche volta, molto più di quel che valeva. Così, ricostruiscono adesso i giudici di Palermo, il cavaliere poteva in parte rientrare dalle scoperture più clamorose. E i suoi debiti con la banca venivano in sostanza pagati dalla banca, o più precisamente dai suoi dipendenti. Perché i soldi per comprare i palazzi arrivavano da uno speciale fondo della Sicilcassa; un fondo istituito, originariamente, per garantire la pensione ai dipendenti...
Cose nostre divertenti. Per questo e altro, ad ottobre di due anni fa, è finito in galera il direttore della Sicilcassa Giovanni Ferraro, e con lui un manipolo di esperti, consulenti, affaristi, dirigenti. Ma era solo l'inizio: a settembre scorso i giudici hanno messo dentro Giacomo Perticone e Giuseppe Frisella (ex vicedirettore generale ed ex vicepresidente del Banco di Sicilia). E allora si è scoperto che alla Sicilcassa, in fondo, non avevano inventato nulla. Anche il Banco, infatti, s'era dissennatamente svenato per foraggiare - praticamente a fondo perduto - i cavalieri catanesi, pur sapendo che i loro bilanci presentavano «chiari sintomi di squilibrio». In più, questa banca era una vera e propria «cassaforte dei politici». I cui dirigenti, più che ai risparmiatori, rispondevano a Salvo Lima, Mario D'Acquisto, Rino Nicolosi e compagnia. Per non scontentare nessuno, al Banco avevano perfino istituito uno schedario dei raccomandati: l'onorevole scriveva, un funzionario raccoglieva e protocollava, un altro provvedeva tempestivamente a segnalare tutti gli scatti di carriera del giovane protetto: vede, onorevole, che qui siamo di parola? Di questi episodi, a metà tra il crimine e il folclore, la storia del Banco è piena. C'è la folgorante carriera del dipendente Lima Salvatore, perennemente assente, per intuibili ragioni, dal suo posto di lavoro, e periodicamente promosso, per meriti speciali, a livelli sempre più alti. C'è il benevolo trattamento economico riservato alla moglie dell'onorevole Lima, anche lei dipendente dello stesso istituto, anche lei assenteista di mirabile coerenza. Non andava mai sul posto di lavoro, nemmeno a ritirare lo stipendio: pare che i soldi le arrivassero direttamente a casa. C'è la storia degli alberghi di proprietà del Banco - tra i più splendidi della Sicilia, come il Villa Igiea di Palermo - dove i potenti dell'epoca potevano permettersi di soggiornare senza pagare il conto. C'è l'investimento del denaro dei risparmiatori sul progetto della Sitas di Sciacca, una operazione alberghiera favoleggiata negli anni Settanta e ridotta - con due soli alberghi funzionanti su dodici progettati - a monumento perenne all'idiozia siciliana. Ed alla corruzione. Calogero Mannino, il ras democristiano dell'agrigentino che di quel progetto è stato uno dei più accaniti fautori, s'era imbarcato negli anni Settanta per Padova - dove stavano i partner economici dell'operazione - in compagnia di Francesco Bignardi, allora direttore generale del Banco, e del suo vice Gerlando Micciché, padre di Gianfranco, oggi coordinatore siciliano di Forza Italia. Ed il Banco, paga oggi e paga domani, nella Sitas ha investito più di duecento miliardi. Soldi erogati a fondo perduto? Certo che no. Il Banco li riavrà tutti indietro, a rate, quando scadrà la dilazione concessa ai debitori. E cioè a partire dall'anno 2007, a un interesse del quattro per cento: un vero affare.
Peccato che di queste storie allegrotte non se ne incontrino poi tante, nelle carte dei giudici. Le altre sono faccende grevi, faccende di mafia e, probabilmente, di riciclaggio. Nell'inchiesta sul Banco di Sicilia si parla ad esempio delle condizioni di estremo favore accordate ad aziende ufficialmente sponsorizzate dai boss di Cosa Nostra. Come il gruppo Aiello-Greco, di cui faceva parte la Dea Srl, una ditta direttamente garantita presso la banca dai boss di Ciaculli. Alla Sicilcassa invece la Finanza ha sequestrato quattro camion di documenti. Si indaga su un riciclaggio di denaro che i boss mafiosi avrebbero operato tramite gli sportelli dell'istituto con l'aiuto di imprenditori compiacenti. E tra le aziende passate al setaccio ci sono quelle dei cavalieri di Catania. Come al solito.
Già. Ma adesso che succede nelle banche? E, soprattutto, che succede a chi ha bisogno di soldi per lavorare? Adesso i vecchi vertici di Banco e Sicilcassa, tanto per cominciare, non esistono più. Esiste però una ragnatela fittissima, fatta di infinite mediazioni e di sapienti spartizioni, che consente ai residui, per nulla rassegnati, della vecchia politica di influire ancora sulla sorte del credito in Sicilia. Dopo l'arresto dei dirigenti della Sicilcassa, alla Fondazione Vittorio Emanuele - l'organismo che ne controlla la maggioranza azionaria - fu eletto presidente, col beneplacito del governo regionale, un insigne penalista catanese, il professor Guido Ziccone. Una nomina contestata anche perché Ziccone - già sindaco di Catania in nome di Nino Drago, già membro del Csm mentre faceva il sindaco - era stato in precedenza, sia pure per breve tempo, socio del cavalier Graci in una emittente televisiva. Ma questa è poca cosa. Al momento di designare il direttore della Cassa, però, i proprietari - e cioè Fondazione e Regione siciliana - hanno puntato su un altro penalista, il palermitano Salvo Riela. Professionista illustre anche lui, niente da dire. Ma anche, per avventura, uno dei difensori dell'ex presidente Ferraro. In pratica, mentre Riela l'avvocato faceva giustamente il possibile per trarre d'impiccio il suo cliente, Riela il presidente avrebbe dovuto riparare agli sfasci della sua gestione e, se del caso, denunciarli. Un conflitto d'interessi che ha mandato in bestia perfino il forzitalista Micciché. Così Riela ha rinunciato, e alla presidenza della banca è arrivato un tecnico, Antonio Cassella. Con un consiglio d'amministrazione composto - secondo l'elegante espressione del professor Ziccone - da «validi professionisti, solo casualmente vicini a determinate aree politiche». E dunque, solo casualmente lottizzato. Il consiglio ha avuto il tempo di discutere - e fortunatamente bocciare - la proposta di aumentare lo stipendio di Cassella, nientemeno, da duecentocinquanta a settecento milioni l'anno. Poi è stato sciolto, e la banca è stata commissariata. Chi sono i commissari? Il dottor Giuseppe Terranova e lo stesso Cassella. E chi ha voluto il commissariamento? La Banca d'Italia, ma soprattutto il governo regionale, che l'ha posto come condizione per pagare alla Sicilcassa trecento miliardi per la "ricapitalizzazione".
E' proprio alla Regione - azionista dell'istituto - che si gioca il futuro della banca. A Palazzo d'Orleans, dove ogni cosa è governata da un irresistibile sense of humour , l'assessore del ramo è uno dei meno impresentabili inquisiti del governo, il socialista di Trapani Bartolo Pellegrino, che ha in curriculum solo un paio di banali procedimenti per assegni a vuoto. Un tecnico, insomma. Il governo, dopo avere opportunamente temporeggiato sul versamento dei trecento miliardi, ha lasciato intendere che tutte le decisioni sul futuro della banca - compresa l'ipotesi di venderla - dovranno essere decisioni politiche. E verranno assunte dopo le prossime elezioni, alle quali tra parentesi il partito degli inquisiti si ripresenterà in gran forza. A questo punto c'è chi sospetta un piano: svendere la Sicilcassa per pochi spiccioli a qualche istituto del Nord. E c'è d'altra parte chi - in particolare, Gianfranco Micciché - propone esplicitamente di fonderla col Banco di Sicilia. Una questione di alchimie.
Solo che stavolta si rischia di perdere la bussola e non capire più nulla delle alchimie. Un bel giorno ad esempio, nella discussione sulla Sicilcassa, ti ritrovi due pezzi grossi di Forza Italia, Gianfranco Micciché e Silvio Liotta, che per poco non si prendono a male parole su una questione di nomine. Poi sfogli le carte delle inchieste e t'accorgi che l'uno e l'altro, ciascuno a suo modo, hanno - almeno secondo i magistrati - avuto parte nelle meste storie di clientele del Banco di Sicilia. Il primo si sarebbe limitato a raccomandare - da Sottosegretario al Tesoro della Seconda Repubblica- un dipendente ansioso di far carriera. Proprio come avveniva al bel tempo andato. Il secondo, addirittura, si sarebbe offerto di proteggere un funzionario - certo Antonio Zammiti, poi finito in galera - colto con le mani nel sacco mentre architettava imbrogli per compiacere gli amici degli amici.
Saltano le chiavi di lettura, insomma. E saltano anche perché l'ultima polemica sulla Sicilcassa - una polemica che ha riesumato un brutto vocabolo che da tempo non sentivamo pronunciare: "sicilianità" - vede quasi tutti schierati dalla stessa parte. A denunciare - non tutti per le stesse ragioni, si suppone - il pericolo che la banca venga svenduta a qualche istituto del Nord. Temono la svendita i progressisti, che hanno scritto una lettera aperta al presidente Dini. La temono i sindacati, che si oppongono anche alla fusione con il Banco. La temono, infine, anche le destre.
Sono poche le voci fuori dal coro. Almeno una, però, merita d'essere ascoltata. E' quella di Vincenzo Carfì, un sindacalista della Fisac-Cgil che gli scandali della Sicilcassa li ha denunciati ben prima che i magistrati li scoprissero. E che per questo ha pagato in prima persona. Anche la più recente indagine dei giudici è nata da una denuncia di Carfì: riguarda crediti facili erogati dalla filiale romana della banca, in favore, tra l'altro, di esponenti della banda della Magliana. Un vizio duro a morire, un altro scandalo per il quale la Fisac ha invitato i commissari a chiedere i danni ai precedenti amministratori. «Il commissariamento - dice Carfì - era inevitabile. Ma si potevano fare anche altre scelte. Per esempio i cinquecento miliardi che, in questi anni, la Regione ha speso per ricapitalizzare la Sicilcassa. Potevano servire a sostenere dei "consorzi di garanzia fidi", cioè delle strutture in grado di garantire crediti a tasso agevolato per la piccola e media impresa. Con quella cifra si potevano garantire crediti per cinquemila miliardi». Che non sono pochi, con l'aria che tira in Sicilia. Il problema, secondo Carfì, non sono affatto le banche del nord. Sono circolati in passato vari nomi di possibili acquirenti per la Sicilcassa: il più accreditato sembrerebbe la Cariplo. Sono voci, certo: ma non sarebbe male, sostiene Carfì, che qualcuno venisse a risanare una banca che, al momento, perde cinquanta miliardi al mese.
Il discorso potrebbe filare. Se non fosse che, a complicare le cose, ci si mette quel maledetto corteo funebre. E se non fosse che, tra le banche del Nord, ce n'è qualcuna che, dalle nostre parti, viene solo a raccogliere soldi. Prestandone pochissimi, e in più costringendo i clienti più deboli a rientrare immediatamente dalle loro scoperture. Prendiamo il Credito Emiliano. Ha rilevato in Sicilia una infinità di sportelli, ha attuato la politica del rientro immediato, ha ovviamente inguaiato un buon numero di piccoli imprenditori, ha fatto verosimilmente la felicità di un buon numero di strozzini. A Paternò, in provincia di Catania - dove la banca emiliana ha incorporato la Cassa Vittorio Emanuele, un istituto coinvolto in varie disavventure giudiziarie - l'amministrazione comunale (progressista) ha chiesto una indagine della magistratura sugli ultimi cinque anni di gestione del credito. Ed artigiani e commercianti hanno segnalato all'Antimafia il comportamento della banca di Reggio Emilia. Il guaio è che la politica dell'immediato rientro piace anche ai commissari della Sicilcassa. C'è un giro un piano di risanamento che, a quanto pare, si fonda proprio su questo. E siamo, dunque, punto e daccapo.

***

Qualche anno fa c'era un imprenditore, Libero Grassi, che si ribellava da solo alle estorsioni. Era un cliente a rischio per le banche: ragion per cui la Sicilcassa gli prestava sì il denaro, ma a un tasso d'interesse che sfiorava il trenta per cento annuo. Ha combattuto il racket ed è finito in mano, anziché a volgari usurai, a rispettabilissimi strozzini in doppiopetto; adesso i suoi figli fanno il possibile per onorare i debiti, e rimettere su la fabbrica. I suoi figli: perché Libero Grassi, come si sa, è morto ammazzato dalla mafia. Anche i cavalieri catanesi sono morti, di morte naturale. Ma i loro debiti li stiamo ancora pagando noi.

Gianfranco Faillaci